there is a solitude of space
a solitude of sea
a solitude of death, but these
society shall be
compared with that profounder site
that polar privacy
a soul admitted to itself
finite infinity.
emily dickinson
there is a solitude of space
a solitude of sea
a solitude of death, but these
society shall be
compared with that profounder site
that polar privacy
a soul admitted to itself
finite infinity.
emily dickinson
che cos’è il dolore? -
una sensazione che non vuole cancellarsi,
una sensazione ambiziosa.
e.m. cioran
mi sforzo invano,
non vedo ciò che potrebbe esistere.
e.m. cioran
la grande bolla del silenzio
di ottobre
sta sospesa sui boschi.
nemmeno un grido di uccello.
chi respira piano può sentire
il pedale sordo dell’esistenza,
il tono del violoncello,
condensatore mormorante
nella via dei tralicci.
lars gustafsson
dicembre è sempre stato il mese
in cui si smetteva di esistere.
si diventava una parentesi nel buio, o poco più.
si accendevano lanterne, lampade e candele.
ma era evidente
che non bastavano
contro il fiume straripante delle tenebre.
è facile capire
un messaggio natalizio
più pagano, più primitivo:
a qualsiasi costo con torce e fiaccole
riavere una luce solare
il cui ritorno non era mai scontato.
lars gustafsson
da bambino sognavo cose
che appartenevano alla veglia
volevo portarle dentro il sogno,
allora venivano, silenziose, e si fermavano:
uccelli di legno, biglie, piccoli morbidi animali
dagli occhi di vetro dipinto
silenziosi si infilavano nella mano.
poi giungevano nel sogno strani oggetti.
volevo respingerli
e sempre ugualmente deluso
mi svegliavo con la mano vuota.
membrana di vetro, parete illusoria!
ora una farfalla sbatte le ali contro la finestra.
lars gustafsson
come una sonda mi trascino sul fondo.
mi si attacca tutto ciò che non serve.
indignazione stanca, ardente rassegnazione.
i boia vanno a prendere pietre. dio scrive sulla sabbia.
stanze silenziose.
i mobili stanno pronti a spiccare il volo al chiaro di luna.
entro in me stesso lentamente
per un bosco di vuote armature.
tomas tranströmer
ascolta bene…
allora sentirai un rumore che cresce.
poi di nuovo più nulla, solo la tenebra più fitta.
piccoli battiti fragili come di un … orologio,
e poi ancora quel suono grave.
io ti dico: non c’è alcun pericolo,
sono solo treni merci in viaggio nella notte,
vengono da lontano e spariscono,
stanno nel buio, a luci spente, nel frastuono crescente,
la tenebra non li ostacola, è una rete
dove tutta la notte arrivano e spariscono,
e qualche volta s’incontrano; correnti d’aria e frastuono,
si attendono l’un l’altro in qualche angolo remoto,
nel silenzio improvviso; sono là tutto il tempo,
anche quando entriamo nel sonno e li dimentichiamo.
lars gustafsson
vorrei domandargli se non lo assale mai lo sconforto, se aiutare l’africa non è un’ impresa folle, insensata. è tutto troppo grande, fuori misura quaggiù. ma so già la sua risposta. la stessa del padre comboniano incontrato per strada. sarebbe:” guarda gli occhi di queste donne e capirai che vale la pena”. ed è vero, qui la risposta è nella donna, perché in africa abita la madre. sento nel buio il suo stato d’allerta, il suo sonno a intervalli, la sua preghiera. la sua gioia e la sua disperazione.
e allora arriva la seconda domanda, questa volta a me stesso. come faccio a tornare a casa e riadattarmi a un posto in cui non mi riconosco più già da anni, un mondo dove i vecchi sono reclusi, gli adulti hanno disimparato a cantare, i vicini non si parlano, i bambini non giocano e i giovani hanno rinunciato a cambiare il mondo? come farò a sopportare, ora, quello che mi faceva soffrire già prima del viaggio, una terra dove gli animali non pascolano, l’acqua di dio è sequestrata ai liberi, la rapina del pubblico bene diventa normale e nessuno più racconta storie accanto al fuoco?
paolo rumiz
tu non ci sei
tu non ti trovi qui, nessun volto -
possibilmente, i passi dopo l’altro sulla spiaggia, un segno -
il mare, il mare è qui. fuori, ovunque: giace là, e riempie
una gran parte della terra. il mare, si vede, suona, ” come
un’autostrada”. una massa , un gorgoglio, come lo si vuole
chiamare. mai voltato dall’altra parte, stanco, triste, tradito
- o natura potessimo smettere di travestirti usarti profanarti
cancellarti
io
m’inchino
katarina frostenson