immaginavamo navi
come le stimmate del mare – immaginavamo navi
come steli di fiori marini e vette
di mare in terra – immaginavamo il rumore dell’isola,
il mare che batteva come una fontana
alta e la terra era impregnata e dolce
e senza dolore – e certamente questo immaginare
era tornare
al paradiso per la strada aperta
dalle parole e i corpi
si muovevano tenui e disumani come se il mondo dovesse
ancora venire. se tu parlavi io vedevo l’isola
dove i morti chiariscono
corpi fatti di rami e fili d’erba,
stanno seduti con il sole in faccia sulla piccola costruzione
del molo. falde di luce che perfezioniamo.
se tu parlavi io vedevo l’isola
con il giallo sferzante delle ginestre, l’attracco
silenzioso delle barche, la piazzetta in cemento, i cubi bianchi
dove siedono parallele le nostre figure
con occhi carichi di sguardo umano
e gli affetti lasciati nelle case
come una foce dimenticata.
siamo una compagine di vento
un canneto di carne lapidata
un fluttuare canoro di risorti
che perdono
lacrime
dall’occhio interno
perché il vento deve restare vento
e la cenere cenere fino alla fine del mondo
perché questo lasciare che accada
è più dell’amore, questo dire
chi deve andare vada.
maria grazia calandrone